BADAN.  بدن Nel corpo delle lingue madri

Tre corpi dentro Eserciziario – writing club di Teodora Grano a Interazioni Festival

BADAN بدن Corpo 1

Vogliamo conoscere la parola corpo in più lingue possibili, ci interroghiamo. Ma perché parlare di corpo poco prima di iniziare un workshop sulla scrittura? Perché Teodora Grano, conduttrice del workshop ESERCIZIARIO – writing club, che apre la seconda giornata del festival Interazioni all’interno della piattaforma Ricevimento, ci chiede di utilizzare la scrittura come una piscina in cui fare il bagno, ci propone l’immersione in una conversazione silenziosa, quella scritta. 
La proposta è quella di utilizzare inchiostro e sudore per far emergere altri corpi. È l’invito ad un club temporaneo in cui intrecciare le pratiche dello scrivere con le pratiche del corpo.
Ma siamo quelli dei due emisferi, poco in dialogo tra loro. Come si fa a mettere insieme corpo e scrittura?
Tra i primi appunti che prendo, a penna, nel tavolo di scambio con il gruppo larem, inaugurando la nuova agenda al sapore di settembre: “cosa succede se usiamo la scrittura come organo di senso?” 
I nostri organismi, interi, iniziano ad interrogarsi, irrequieti. Fremiamo per entrare in quella stanza, scoprire dove finiremo.

Nella sala bianca di Centrale Preneste Teatro ci accolgono Fabritia D’Intino, Daria Greco e Marta Olivieri, curatrici di Ricevimento, in un teatro in cui si diventa attori e attanti non appena varcato l’ingresso. Facciamo tutti parte di una cerimonia, d’improvviso; quella del ricevimento e del benvenuto, della gentilezza e della convivialità.  Si apre il sipario e cala su noi un velo d’armonia, un tepore in cui confrontarsi e stare.

foto Carolina Farina


Atto I

Teodora – in scena con noi – ci pone una prima domanda piuttosto semplice: vuole sapere da quanto non scriviamo a penna e se ci viene in mente una parola da portare con noi, assieme ad una breve presentazione. Si tratta di una parola che rintracci l’idea di una scrittura che ha corpo, prima di avere contenuto.
Seduta, sento le mie scapole scalpitare da dietro, le clavicole distendersi, ho voglia di mettere in dialogo le mie ossa tra loro. Avverto un senso di collaborazione tra i miei motori corporei, un solletichio da dentro; la parola “scheletro” si imprime nella mia mente.

(A nessuno qui interessa il contenuto. Il focus è tutto sulla struttura. Così iniziamo a sentire le dita poggiarsi sulle penne.)

La prima proposta sembra semplice ma si rivelerà faticosa. Si tratta di calcare lentamente il proprio nome e la parola confezionata per quella porzione di tempo insieme. Un foglio bianco che ci guarda, steso sul tavolo, in attesa di ospitare questa deformazione lenta.
È sufficiente iniziare a tracciare la propria iniziale affinché l’opera di dispercezione prenda forma. Vedo la mia scrittura snaturarsi.

Questa non sono io. Non voglio scrivere così il mio nome e la parola che ho scelto con cura. 

Vorrei oppormi, permettere alla mia mano di correre veloce su quel foglio tremendamente bianco. Ma questo è il compito: osservare il corpo del testo scritto. Così una cosa larga e decisamente elementare nella forma, viene fuori. Mi guarda. Nel secondo passaggio, così come si fa con quello splendido materiale montessoriano che sono le lettere smerigliate, poggiamo le dita sulle nostre deformazioni appena sfornate, e su quelle dei nostri commensali. Poggiamo prima gli occhi e poi i palmi su tutti i tratti presenti. 

C’è chi, tra noi, ha deciso di occupare, con quella lentezza a disposizione, tutto il foglio, chi ha scelto di stringersi sul bordo, nascondendosi a se stesso. Chi, come me, voleva indietro la sua grafia. Ma l’esercizio è il seguente: indebolire il proprio corpo scritto, la propria singolarità piena di inchiostro, il proprio inimitabile tratto.

foto Carolina Farina

Atto II

La condivisione di una lettura. Le pagine raccontano il tema della lingua madre. La madre di questo libro è Ursula K. Le Guin e il titolo è: “I sogni si spiegano da soli”. Una di quelle grandi dicotomie su cui, volendo, si può dibattere per giorni, eppure, attorno a quel tavolo, non riusciamo a svestire del tutto il tema.

Qual è la mia lingua padre? Qual è la mia lingua madre? Cosa abbattere e cosa trattenere? E perché nominare sempre queste due facce per dare i nomi alle cose? Madre-padre, maschio-femmina. I conflitti generati sono infiniti. Dal testo, la lingua padre sembra essere assertiva, quella del potere e delle decisioni. Quella madre viene definita plebea, triviale, bassa, primitiva, banale, ripetitiva, profana. Mentre lo leggiamo, a voce alta, mi chiedo: ma perché? Mi arriva il libro tra le mani e leggo: è la lingua del legame, della relazione, dell’unione e non della divisione. Del respiro. Quest’ultima cosa mi piace e accordo. Una lingua che, con cadenza, ritorna, va e viene. 

Mentre condividiamo questo momento è l’italiano che fa da lingua padre. Crea dei bei divari. L’inglese sorge in soccorso, non per tutti. Nessuno è troppo comodo.

foto Carolina Farina

Atto III

Il foglio bianco ci chiede di meditare su di lui, Teodora ci offre una traccia musicale per farlo. Arrivano spunti e le ombre di candela si sporgono su quel candore monocromatico che va dal bianco della tovaglia al bianco del foglio. Allo scadere della traccia, afferrare le penne. Via al flusso. Scrivere senza sosta, correre sulle parole.

Stop.

Passate il foglio al vostro compagno di destra. Mi arriva un foglio tra le mani, poi un altro, poi uno ancora. Provo a decifrare le scritture che tocco, e ad osservare quelle di cui non conosco i grafemi.

Ora fate attenzione perché la vostra mano deve compiere un esercizio diverso dal solito. Un’osservazione minimale che ci fa tracciare su una carta velina le parole che troviamo interessanti del foglio di chissà chi abbiamo davanti.

Ci appropriamo di parole non nostre, scritture altrui. Le invitiamo sulla nostra pagina bianca mentre sorge necessario domandarsi: come prende la penna la persona di cui ricalco le parole? Com’era seduta su questa sedia? Da quanti anni ha questa grafia? E a chi avrà rubato la A?

foto Carolina Farina

Atto IV

Senza fiato. In apnea senza preavviso.

Il compito è: non staccare mai la penna dal foglio. Un muoversi infinito. Scompaiono gratuitamente i puntini sopra le i, gli alfabeti della sala si intrecciano tra loro. Strisce mobili d’inchiostro separavano una parola dall’altra.

Respiriamo. È finita. Si può staccare la penna dal foglio. Concordiamo tutti sulla sofferenza.

Atto V

Una dedica. Non ci resta che offrire una di queste parole care ad un nuovo foglio bianco e a noi stesse.

Di nuovo, respiriamo, questa volta assieme.

Abbiamo finalmente sperimentato cosa significa guardare al corpo della scrittura, cercarne la struttura e squalificare il contenuto.

Ringraziamo Teodora per l’invito al club temporaneo da essa generato e per il lungo bagno negli inchiostri che ci ha concesso.

Jamira Colapietro

BADAN بدن Corpo 2

foto Carolina Farina

My mind was busy with myself, I always tried to find myself in this round blue sphere. When I am with myself, when I am with my family, when I am in different groups with different people.
When I was a student at the Journalism and Communication University.
But I understood the value and importance of language more when I immigrated.
What is mother tongue?
Mother tongue is the means by which you find yourself.
When you try to communicate with someone.
When you need someone to know you and you need to understand your other side. Feel your presence in the environment.
feel your being
The mental concern of all people on the planet is to prove their existence on the blue planet.
Mother tongue was the only tool I had at the time of migration, for me it was my only source of life with whom I could communicate little by little.
Struggle with language: When I traveled to Pakistan, Iran, ancient Rome or other countries. It was very difficult.
Not knowing the language was like an iron folder that was placed on me, I was trying to get out of this iron cage and be able to breathe a little. Living in a country and environment whose native language is not the same as yours
It’s like being invited to the big running race for survival and it doesn’t ask you if you have a broken leg, you’re scarred, you’re fine, you just have to run and win.
Living in a country whose native language is different means running with a broken leg.

ذهنم درگیر خودم بوده همیشه تلاش کردم خودم را در این کره‌ی گرد آبی پیدا کنم زمانی که با خودم هستم، زمان که با خانواده هستم ، زمان که در جمع های متفاوتی با مردم های متفاوتی بودم.
زمان که محصل دانشگاه خبرنگاری و ارتباطات شدم.
اما حرف مهم اینجاست که من ارزش و مهم بودن زبان را زمانی بیشتر فهمیدم که مهاجرت کردم.
زبان مادری چیست؟
زبان مادری وسیله که تو خودت را با او پیدا میکنی
وقتی تلاش میکنی با کسی ارتباط برقرار کنی.
وقتی نیاز داری تو را کسی بداند و تو طرف مقابل ات را بفهمی وجود خود را در محیط احساس کنی.
بودنت را حس کنی.
دغدغه ذهنی همه آدم های کره زمین شاید به این باشد که وجود و هستی خود را روی کره آبی ثابت کنه.
زبان مادری تنها وسیله بود که در زبان مهاجرت داشتم برای من تنها منبع حیاتم که با او می‌توانستم پاشکسته کم کم ارتباط برقرار کنم.
سر و کله زدن با زبان زمان که پاکستان، ایران، رم باستان مسافرت کردم  یا هم کشور های دیگر سفر کردم.
ندانستن زبان مانند پوشه آهنی بود که روی من قرار گرفته بود هی تلاش میکردم از این قفس آهنی بیرون شوم و بتوانم کمی نفس بکشم،
زمانی بود که ارزش فهمیدم زبان مادری برایم معلوم شد. زندگی کردن در کشور و محیط که زبان مادری اش با زبان مادری تو یکی نیست
مثل اینست که در مسابقه بزرگ دوش برای زنده ماندن دعوت شدی و ازت نمی‌پرسد پایت شکسته است، زخم داری، حالت خوبست، فقط مجبور به دویدن و برنده شدن استی.
زندگی کردن در کشوری که زبان مادری ازش متفاوت است یعنی با پای شکسته دویدن.

Frishta Haidari

BADAN بدن Corpo 3

foto Carolina Farina

In a recent workshop focused on native language and communication I had the chance to reflect on how deeply important our native language is in our lives

One of the biggest realizations for me was that my native language gives me a genuine sense of belonging and comfort When I speak in my own language I feel a strong connection to my roots and the culture that has shaped me This connection brings me a sense of security and ease not just in family gatherings or among friends but in every part of my life whether it’s at work or in school. What really struck me is how my native language allows me to express my emotions authentically. When I communicate in my native tongue I can share my feelings—whether it’s love happiness or even sadness—in a way that feels natural and true to who I am. It’s as if I can open my heart without any barriers getting in the way when I try to express myself in another language I often feel restricted. Even if I’m comfortable with that language I struggle to fully convey what I’m feeling. It’s frustrating because I find myself trying to articulate thoughts and emotions that feel complex and rich but I can only express them with the simplicity of a child’s words. This disconnect makes it hard to share what’s truly going on inside me.

Overall this workshop reminded me that my native language is so much more than just a way to communicate it’s a core part of my identity. It helps me understand myself better and allows me to connect with others on a deeper level. I’ve come to appreciate that my native language is not just a means of expression but a vital source of emotions experiences and cultural identity that truly defines who I am.

در یک کارگاه اخیر که بر روی زبان مادری و ارتباطات متمرکز

بود، فرصتی داشتم تا بر روی اهمیت عمیق زبان مادری در زندگی‌مان تأمل کنم. یکی از بزرگ‌ترین درک‌های من این بود که زبان مادری به من حس واقعی تعلق و آرامش می‌دهد. وقتی به زبان خودم صحبت می‌کنم، احساس می‌کنم که ارتباط قوی‌ای با ریشه‌هایم و فرهنگی که مرا شکل داده است، برقرار می‌کنم. این ارتباط به من حس امنیت و راحتی می‌بخشد، نه تنها در جمع‌های خانوادگی یا بین دوستان، بلکه در تمام جنبه‌های زندگی‌ام، چه در محل کار و چه در مدرسه.

آنچه واقعاً من را تحت تأثیر قرار داد، این است که زبان مادری به من این امکان را می‌دهد که احساساتم را به‌طور واقعی بیان کنم. وقتی به زبان مادری‌ام ارتباط برقرار می‌کنم، می‌توانم احساساتم—چه عشق، شادی یا حتی غم—را به روشی طبیعی و واقعی به اشتراک بگذارم. این‌طور به نظر می‌رسد که می‌توانم قلبم را بدون هیچ مانعی باز کنم.

برعکس، وقتی سعی می‌کنم به زبان دیگری خودم را بیان کنم، اغلب احساس محدودیت می‌کنم. حتی اگر با آن زبان راحت باشم، در انتقال کامل آنچه احساس می‌کنم، دچار مشکل می‌شوم. این موضوع ناامیدکننده است زیرا خود را در حال تلاش برای بیان افکاری و احساساتی می‌یابم که احساس می‌کنم پیچیده و غنی هستند، اما تنها می‌توانم با کلمات ساده یک کودک آن‌ها را بیان کنم. این عدم هماهنگی باعث می‌شود که نتوانم به‌طور واقعی آنچه در درونم می‌گذرد را به اشتراک بگذارم.

به‌طور کلی، این کارگاه به من یادآوری کرد که زبان مادری‌ام بسیار بیشتر از یک ابزار برای برقراری ارتباط است؛ این زبان بخشی اساسی از هویت من است. این زبان به من کمک می‌کند تا خودم را بهتر بشناسم و به من این امکان را می‌دهد که با دیگران در سطحی عمیق‌تر ارتباط برقرار کنم. من به این درک رسیده‌ام که زبان مادری‌ام نه تنها وسیله‌ای برای بیان افکار، بلکه منبعی حیاتی از احساسات، تجربیات و هویت فرهنگی است که واقعاً تعریف‌کننده من است.

Elahe Qaderi

foto Carolina Farina

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