Interazioni 2024. Come guardare un festival e cosa si vede da qui.

Un’intervista a Salvo Lombardo registrata nel 2023 ma che parla nel 2024 al nuovo laboratorio di visione interculturale.

foto Carolina Farina

Dopo l’edizione 2023 di Interazioni Festival — curato da Chiasma — con Zara Kian ci siamo ritagliati un momento di calma insieme alla direzione artistica per confrontarci sulla prima esperienza del progetto Lerem.eu all’interno di questo festival. In quell’occasione abbiamo fatto qualche domanda a Salvo Lombardo e Annalisa Luise sulla percezione del laboratorio da parte del festival. Abbiamo lasciato quell’audio a riposare nell’archivio e ora che il tema del festival ce lo chiede — Flashback Flashforward — ne riportiamo a galla la memoria, ora che stiamo ripartendo con il laboratorio per la nuova edizione del festival 2024 e che ci rivogliamo verso “memorie non ancora emerse rispetto al presente”. Ripartendo anche da qui, dagli articoli che raccontano come il gruppo di visione ha attraversato l’edizione del festival 2023:

Luca Lòtano: Fretta e precarietà. Sono due sentimenti che sentiamo ogni volta che partiamo con un laboratorio di visione Lerem.eu. Per la difficoltà della creazione di un gruppo che difficilmente si formerebbe con una semplice call sui social, per il desiderio che quel gruppo specifico e quell’edizione del festival riescano a trovare un modo per parlarsi oltre e dentro i diversi linguaggi, per costruire e rendere sostenibili prima e dopo le visioni delle performance momenti di confronto interne al gruppo, per dialogare con le artiste, tutto questo contemplando lo sforzo e la frenesia di vite che difficilmente si sposano con la proposta di un intero festival teatrale. Ogni volta che ripartiamo penso sempre a se e come potremmo non sentire fretta e precarietà; ma poi penso che forse sono due sensazioni endemiche, profonde, la precarietà e la fretta, perché quelle che si creano nei laboratori di redazione sono comunità che si formano attorno a queste due dimensioni proprio per, per un tempo brevissimo, emanciparsene: della precarietà delle esistenze, e della fretta dell’incastrare un’attività di ozio totalmente estranea alla routine quotidiana di una persona che sta cercando di vivere, abitare e lavorare in una città nuova. Partecipare a un gruppo di visione per attraversare un Festival, fuori dal “pensato” del giorno, e riuscire a farlo per la durata del Festival che sia di cinque, sei, sette giorni, mi è sembrato anche stavolta qualcosa di miracoloso. È una sorta di apparizione visionaria che per alcuni magari non si ripeterà più, e che invece qualcuno poi replica, continua.

foto Carolina Farina

Qual è stata la percezione del laboratorio all’interno del Festival da parte vostra, da parte della direzione artistica e rispetto all’idea in sé di “Interazioni”?

Salvo Lombardo: La vostra presenza credo sia stato un valore aggiunto e la vostra ricorrenza in tutto il festival ha restituito una misura rispetto ad alcuni di quelli che sono i nostri desideri e le nostre ambizioni rispetto a come un festival del genere può muoversi e cosa può fare; ci ha restituito un’idea chiara su cosa siano le “Interazioni” del nostro titolo, sono delle interazioni che hanno a che fare con le persone, che hanno a che fare con le singoli soggettività e il loro background ma sono anche interazioni a livello macro, che riguardano le relazioni che le persone hanno con i luoghi e i contesti. Ritrovare insieme un senso su come muoversi in una geografia mobile di una città così complessa e stratificata può nel tempo aiutare a costruire; intanto ad annientare questa rincorsa tra il concetto di centro e di periferia e l’unico modo per farlo però, perché non sia solo un dire che non esiste un centro e periferia, sono le pratiche. Fare in modo che ci sia travaso tra queste microcomunità, transitorie, che in questa geografia si muovono e la abitano appunto con disinvoltura. E un’altra modalità di interazioni che si è attivata è proprio anche legata a quello che mi è sembrato essere nella natura del vostro progetto, che mi sembrava incontrasse bene diversi aspetti della nostra programmazione sia da un punto di vista tematico ma soprattutto anche da un punto di vista delle modalità.

Il gruppo ha avuto la possibilità di partecipare anche ai workshop proposti dalle artiste durante le giornate del festival. Per noi è stato un altro modo per far passare per il corpo quello che poi le performance ci hanno proposto, e un ulteriore spazio di incontro con altre microcomunità.

Salvo Lombardo: Credo che anche grazie alla vostra presenza i workshop siano stati qualcosa di più, perché sono riusciti a superare quella targhettizzazione relativa ad un’utenza tanto specifica che a volte si crea dentro la bolla delle arti performative e rischia di appiattire i laboratori ad una sola funzione dentro uno specifico linguaggio. E invece voi, assieme anche ad altri piccoli gruppi che siamo riusciti ad intercettare, avete creato una sorta di trasversalità di quelle proposte ribaltandole e mettendole anche a repentaglio, in senso bello.  

foto Carolina Farina

Qual è stata la reazione e la restituzione degli artisti che hanno condotto i workshop?

Praticamente tutti gli artisti che hanno condotto i workshop ci hanno detto di aver scoperto qualcosa che non immaginavano, perché non immaginavano di potersi davvero rivolgere – in un campione di persone così limitato – a una trasversalità così ampia. Questo per me vale molto nell’esperienza di un festival, quindi sono molto contento e contento anche che gli artisti si siano portati con loro un’esperienza specifica, anche grazie a un’interazione come questa con voi, in un regime di reciprocità, dove ognuno di noi si è portato, spero, un pezzetto di consapevolezza o di esperienza in più a casa, ognuno secondo quello che è e che può e che vuole.

Rispetto ai contenuti, agli articoli prodotti dal laboratorio di redazione, che percezione ne avete avuto come direzione artistica? Questi articoli che sono in realtà per noi una partecipazione all’interno del festival, a partire da una posizione nella quale abbiamo sentito che potevamo stare comode per le modalità con le quali avete accolto il progetto, nonostante la precarietà e la complessità dell’esperienza.

Salvo Lombardo: Precarizzare le aspettative per me è sempre interessante; forse quello di cui realmente ci occupiamo e quello di cui un festival, dovrebbe, o se non altro potrebbe occuparsi, è di attivare dei contesti e poi lasciare che le persone questi contesti li completino e non li eseguano, che è molto diverso; quindi che non li completino rispetto alle aspettative che il contesto si dà, ma le completino anche in un margine di determinata partecipazione, e secondo me l’arte fondamentalmente fa questo. Ecco perché ci occupiamo di linguaggi contemporanei, banalmente, perché questa è la contemporaneità, cioè come un’artista viene con una sua idea di segni da buttare nello spazio, ma poi questi segni non sono niente se non c’è una comunità che si convoca lì e se con questa comunità non si espone alle sue cadute che sono temporali, spaziali.

foto Carolina Farina

Quello che quindi per noi emerge dagli articoli è collegato a quanto detto sopra, in un senso di qualità, anche per il fatto di mettere a repentaglio le aspettative sul formato editoriale in questione. E questa è una cosa interessante ed è proprio il motivo per cui poi mi piace valorizzarli come degli sguardi, perché al di là della loro provenienza, al di là del fatto che – e questo non è un livello secondario – ognuno di quei pezzi nella sua polifonia valorizza il tempo e lo spazio di quei corpi che hanno presieduto a quelle giornate, soprattutto restituisce davvero quello che per me dovrebbe essere un’eco narrativa di un’esperienza artistica: perché lo fa applicando uno sguardo che è tendenzialmente in soggettiva. Io preferisco leggere punti di vista in soggettiva anziché punti di vista che tendono ad una pseudo oggettivazione nella quale invece poi allora, dovendo oggettivare, è richiesto un ulteriore passaggi di posizionamento: chi sei tu, da quali background culturali, intellettuali stai analizzando quella cosa con una pretesa di oggettivazione? Invece tutto questo nell’esperienza del blog è secondario, è più interessante che del soggetto che sta scrivendo emerga la sua esperienza situata. E al tempo stesso traspare anche la negoziazione, si vede che c’è una negoziazione nel restituire poi il punto di vista. È come un dire “io lo so, perché io c’ero” ed è molto diverso da dire “io lo so” e punto, perché altrimenti questo prevede poi una concatenazione di potere dello sguardo.

Annalisa Luise: a me è piaciuto tantissimo che non ci fosse un testo condiviso ma che si leggesse la pluralità degli sguardi, l’idea di leggere un testo scritto a più mani e di poter leggere un’esperienza vissuta da più persone. Mi piace nell’esperienza comune condivisa riuscire a rintracciare comunque sempre il soggetto che è messo in primo piano, e questa soggettività secondo me è centrale ed è molto bello vedere questa pluralità di sguardi che si incontrano in un testo condiviso. Questa è una cosa che mi è piaciuta tantissimo, avere una fotografia che non è soltanto mono direzionale, ma arriva da tanti punti, è una complessità che non è scontata.

foto Carolina Farina

Desideri e sviluppi futuri?

Salvo Lombardo: Sarebbe bello immaginare, anche se nella complessa articolazione di un festival, il fatto che per voi almeno nella singola giornata, se non nel singolo micro-periodo, ci sia una stanzialità maggiore; cioè la possibilità per voi di arrivare in tempi che non sono concitati, di sentire che quel posto per quel giorno è anche casa vostra, come dovrebbe essere per tutto il pubblico. Creare un interstizio dentro cui potersi scambiare idee, dialogare, respirare insieme al di là della pratica che poi ti appresti a fare un’ora prima o un’ora dopo, un interstizio abitabile senza doverlo ritagliare, ma invece contemplarlo come una questione centrale, per radicalizzare quello che stiamo dicendo. Per motivi molto diversi ci sono state in questa esperienza risacche di piccole comunità transitorie con livelli di precarietà, ovviamente molto diversi tra loro, ma che si parlano, compresa quella nostra interna del festival; anche noi incarniamo un livello di precarietà che è in qualche modo geografica nella città e che è istituzionale, economica. Queste precarietà fanno in modo che la pianificazione con un respiro ampio, con degli spazi dedicati sia un’utopia anche per noi. Allora forse dovremmo provare ad unire questi livelli molto differenti di precarietà, rendendo la precarietà concettuale — che ognuno poi incarna, ovviamente, rispetto a quello che in quel momento la sua vita è — provando a ritagliare delle zone franche e raccontare che questo festival ha anche delle zone che sono un respiratorio per persone che lo attraversano. Me lo segno come appunto mentale perché può essere una delle linee guida per l’anno prossimo.

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