Lo Spazio Franco, Amunì e Volver
Dall’oblò dell’aereo, mentre si intravede la Sicilia, Alagie guarda il Mediterraneo; lo vede per la prima volta da così in alto. Siamo stati invitati a Palermo – come Spettatori Migranti – dal progetto Amunì, una di quelle realtà che grazie al bando MigrArti ’18 – Mibact stanno dando vita a una serie di esperimenti sociali, artistici, alla ricerca di un nuovo senso di comunità, partendo dall’arte.
Alagie la parola Sicilia la conosce bene, torna dopo quasi un anno e mezzo; tempo durante il quale ci siamo conosciuti in un centro d’accoglienza, abbiamo lentamente iniziato a parlarci in italiano, ci siamo avvicinati al teatro insieme da spettatori, come pratica sociale, di apprendimento linguistico, di scoperta di codici e confronto culturale, e poi anche da performer con il progetto Dance Across Border.
Ad aspettarci – in quel luogo virtuoso che risponde al nome di Cantieri Culturali alla Zisa – c’è il regista Giuseppe Provinzano. Da quest’anno la sua compagnia Babel e il progetto Amunì sono assegnatari di uno dei numerosi spazi gestiti dal Comune di Palermo nel quale dar vita ai propri percorsi artistici, all’interno dei Cantieri. È qui che partecipiamo a due delle giornate di teatro, incontri e cinema organizzate dal 4 al 7 luglio. È qui che assistiamo a Volver, nuova produzione della Compagnia dei Migranti Amunì dopo Il rispetto di una puttana. In scena e dietro le quinte le origini dei ragazzi, giovanissimi, sono Mali, Nigeria, Marocco, Tunisia, Sri Lanka Bangladesh, Isole Mauritius, Iraq e Italia. Dopo lo spettacolo incontriamo il regista e ci facciamo raccontare lo Spazio Franco, il progetto Amunì e il perché dello spettacolo Volver.
Il viaggio è lungo. Difficoltà e visioni
Appena lo spettacolo finisce Alagie, seduto a fianco a me, si alza in piedi per applaudire. La sua reazione mi sorprende, condivido con lui l’entusiasmo per il progetto, per il processo virtuoso al quale questi ragazzi stanno prendendo parte, eppure non riesco a non registrare che la resa scenica non convince ancora. C’è sì la percezione forte di un viaggio più lungo, coraggioso, iniziato con gli attori con la volontà di una formazione che finirà il suo ciclo nei prossimi anni; la scelta è di farli lavorare da soli in scena, affidando anche la scenografia e la parte tecnica ad altri migranti. La regia, mi dirà Provinzano, prova a fare un passo indietro per permettere agli attori di comprendere a pieno, di sviluppare una consapevolezza scenica profonda. E allora diremo – su queste pagine che guardano al teatro come opportunità più che come critica – che a questo punto del viaggio si alternano trovate sceniche più riuscite ad altre nelle quali tutto sembra indirizzato alla rappresentazione di un linguaggio ancora da perfezionare per poter guardare al futuro; ma mentre formulo il pensiero Alagie è in piedi che applaude.
Mi viene in mente il nome Diverse visioni, progetto destinato ai giovani migranti che sperimenta ed esplora il teatro come formula di accoglienza, curato quest’anno da Margherita Ortolani e Vito Bartucca assistendo agli spettacoli del Teatro Biondo di Palermo. Ripenso alla diversa reazione che qualche ora prima io e Alagie abbiamo avuto davanti all’installazione Egg men di Patrizia Maimouna Guerresi all’interno della mostra Resignification a cura di Awam Amkpa nei Cantieri Culturali alla Zisa – Zona Arti Contemporanee (ZAC). Mentre davanti all’installazione (clicca qui per visualizzare) associavo l’immagine di quei corpi a degli enormi cervelli chiusi su se stessi, Alagie mi diceva di averli visti quegli uomini, morti in quella stessa posizione lungo la strada del deserto libico, di sete e di fame. Una volta ancora, mi ricordo che gli spettatori sono casse di risonanza di materiali e forme differenti e il suono che un’opera – o la realtà – restituisce non può non esserne condizionato.
Palermo
Prima di lasciare questa Palermo, Capitale Italiana della Cultura 2018, sede di Manifesta 12 – Biennale nomade europa -, ringraziamo il progetto Amunì per il dialogo aperto durante la prima trasferta di Spettatori Migranti; poi ci facciamo un giro per Ballarò, laboratorio a cielo aperto di un’Italia della quale non accettiamo ancora la – complessa – possibilità. Al centro del quartiere passiamo per il crocevia di numerosi progetti, il ristorante e coworking Moltivolti, la Chiesa e la piazzetta di Santa Chiara dove, tra le altre, Arte migrante organizza serate di espressione libera con l’obbiettivo di creare relazioni sociali a partire dall’arte. Mentre passeggiamo per il mercato e per la vicina Albergheria, d’un tratto tra i tanti piccoli posti rivalutati dalla cittadinanza, si apre una piazza con un prato d’erba sintetica: due o tre ragazzini di etnie diverse tirano calci a un pallone sovrastati dai sedici metri di un murales che campeggia su una parete. La figura ritrae San Benedetto il Moro, patrono e protettore di Palermo – sì, un frate africano è protettore di Palermo insieme a Santa Rosalia – realizzato nel contesto di Mediterraneo Antirazzista da Igor Scalisi Palminteri e dai bambini del centro sociale San Francesco Saverio. L’associazione è immediata con l’altra opera di street art di Palminteri che su un jersey barrier – dissuasore posizionato in centro contro possibili attacchi terroristici – ritrae l’uccisione tra i pomodori di Sacko Soumaila. Esiste allora ancora oggi un modo di riapprorarci degli spazi, della terra, di noi stessi? Ci torna in mente lo Spazio Franco e le parole della Carta di Palermo raccontate da Giuseppe Provinzano. Poi, come sempre, è il momento di ripartire verso Roma. Amunì.
Intervista e articolo a cura di Alagie Camara e Luca Lòtano